Un
filosofo tedesco mi sostiene nell’uso
della logica
per
la difesa scientifica della verità cattolica
di Monsignor Antonio Livi
Il professor Roberto de
Mattei ha molto opportunamente riferito su Corrispondenza
Romana della presa di posizione del filosofo tedesco Josef Seifert in
merito alle ambiguità teologico-morali dell’esortazione apostolica Amoris laetitia(cfr https://www.corrispondenzaromana.it/wp-content/uploads/2017/08/Testo-Seifert-italiano.pdf?it).
Seifert è un filosofo di orientamento fenomenologico, lontano però dalla deriva
idealistica di Husserl e di molti pensatori della sua scuola (in questo ha
seguito l’esempio di Edith Stein e di Dietrich von Hildebrand). Il nucleo della
sua argomentazione è questo: se si esamina con rigore logico ciò che il Papa
argentino scrive in tema di moralità dell’atto umano (oggettività della colpa,
soggettività della consapevolezza e dell’intenzione), ne risulta la conseguenza
terribile che quel documento pontificio contraddice alla radice i documenti del
Magistero precedente in materia di morale matrimoniale (soprattutto l’Humanae vitae di Paolo VI e la Familiaris consortio di Giovanni Paolo
II) e soprattutto i fondamenti dogmatici della teologia morale (dottrina sulla
coscienza e sugli atti intrinsecamente disordinati), che lo stesso Giovanni
Paolo II aveva ricordato nell’enciclica Veritatis
splendor.
Di conseguenza, i casi sono due: o bisogna dire (come ha detto
anche il cardinal Burke) che l’esortazione apostolica Amoris laetitia non costituisce un atto di vero e proprio magistero
(in quanto risulta sostanzialmente incompatibile con la Tradizione), oppure
bisogna almeno ammettere quello che io da anni vado sostenendo, ossia che quel
documento è volutamente ambiguo. Non
si può dire, invece, che c’è perfetta continuità tra l’Amoris laetitia e la dottrina di Paolo VI, Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI. Lo ha detto il cardinale Schönborn, con la famosa frase (assai
poco logica): «Certamente bisogna leggere l’Amoris
laetitia alla luce le magistero precedente, ma anche leggere il magistero
precedente alla luce dell’Amoris laetitia».
Lo ha ripetuto un altro filosofo, Rocco Buttiglione, che è amico sia mio che di
Josef Seifert, e sia io che Seifert abbiamo criticato il suo maldestri
tentativo di giustificare i passaggi ambigui dell’Amoris laetitia con il ricorso alla dimensione “personalistica”
della morale, che – a suo dire – completa e sviluppa la dottrina, ancora troppo
“metafisica”, del Magistero precedente. Un ricorso meramente nominalistico, che
non regge all’analisi logica di ciò che “personalismo” e “metafisica” sono in
filosofia e nella dottrina della Chiesa cattolica sull’oggetto e il soggetto
dell’azione orale (si veda quanto ho scritto, in polemica con Buttiglione, in
Teologia e Magistero, oggi, Leonardo da Vinci, Roma 2017).
Il fatto di “esaminare
con rigore logico” l’esortazione apostolica Amoris
laetitia, come fa Seifert, è l’applicazione (sempre necessaria) della
logica filosofica all’ermeneutica del Magistero, per poter distinguere quello
che la Chiesa afferma con autorità divina e che va recepito come dogma (o come
interpretazione ufficiale del dogma) da quello che invece afferma per motivi
contingenti di ordine pastorale o addirittura di ordine politico e che va
recepito come orientamento pratico legittimoma non vincolante. Di questa preziosa risorsa della filosofia che è la
logica anch’io faccio da sempre uso nell’opera di “difesa scientifica della
verità cattolica”, che è la missione propria dell’Unione apostolica “Fides et
ratio”. Per questo ho considerato l’intervento del filosofo tedesco come un sostegno
indiretto ma efficace all’opera di chiarificazione e di ri-orientamento
dell’opinione pubblica cattolica, gravemente turbata dalla ridda di
interpretazioni diverse del magistero ecclesiastico e alle prese di posizione
polemiche, spesso più ideologiche che non teologiche (vedi Danilo Quinto, Disorientamento pastorale, Introduzione
teologica di Antonio Livi, Leonardo da Vinci, Roma 2016).
Io punto tutto sulla
“logica aletica”, strumento di critica epistemica che ho ampiamente illustrato
nelle mie opere (cfr Verità del pensiero.
Fondamenti di logica aletica, Lateran University Press, Città del Vaticano
2002; Senso comune e logica aletica,
Leonardo da vinci, Roma 2008; Le leggi
del pensiero. Come la verità viene al soggetto, Leonardo da vinci, Roma
2017) e che alcuni studiosi hanno saputointerpretare correttamente (cfr Fabrizio Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica, Leonardo da Vinci,
Roma 2012; William Slattery, The Logic of
Truth. Saint Thomas Aquinas Epistemology and Antonio Livi’s Alethic Logic,
Leonardo da Vinci, Roma 2015).
Io ho voluto sottrarre il tema della verità
logica, che è al centro del dibattito contemporaneo (neopositivismo logico,
ermeneutica, razionalismo critico), alla deriva relativistica, riportandolo al
suo ambito naturale, che è quello della “metafisica” (in senso aristotelico), dove
la soggettività implica sempre l’oggettività e viceversa.
In tal modo la
fondazione logica della verità del pensiero, richiamata anche daHeidegger, consente alla filosofia di
svolgere il suo ruolo naturale di “sapienza pubblica”.
La filosofia, infatti, è
nata in Grecia come superamento della mitologia e come critica del potere
politico in nome di una verità trascendente (Socrate), sicché nemmeno oggi la
filosofia deve ridursi a letteratura, a retorica, cioè a discorsi infondati e
ultimamente ipocriti, perché utilizzabili da parte delle ideologie dominanti in
cerca di consenso (o delle élites o
delle masse popolari). In ogni aspetto della mia attività accademica e pubblicistica,
intesa come “intervento nella società” in difesa della verità naturale e della
possibilità di recepire la verità rivelata, io mi sono sempre servito della mia
riconosciuta competenza scientifica come logico. Ho voluto riproporre in
termini oggi condivisibili il primato della “logica aletica” (o della verità
possibile), alla base della quale sta la nozione di “senso comune”, inteso modernamente
come il sistema delle evidenze immediate dell’esperienza, grazie alle quali
ognuno è in grado di discernere, in qualunque contesto e situazione, le verità
fondamentali dell’esistenza umana e i dettami della legge naturale. A questo
riguardo, il testo fondamentale è Filosofia
del senso comune. Logica della scienza e della fede (Leonardo da Vinci,
Roma 2010), tradotto in francese, in inglese e in spagnolo. Applicando poi
questa mia dottrina ai problemi dell’ermeneutica teologica, ho pubblicato nel 2012 Vera
e falsa teologia. Come distinguere l’autentica “scienza della fede” da
un’equivoca “filosofia religiosa” (terza edizione aggiornata, Leonardo da
Vinci, Roma 2017), dove smaschero quella teologia filo-luterana che
caratterizza il riformismo post-conciliare, responsabile della “discontinuità” o
“rottura” con la Tradizione dogmatica e liturgica della Chiesa che tanto
disorienta l’opinione pubblica cattolica. L’opera è stata apprezzata anche da
papa Benedetto XVI, che mi ha scritto una lettera di incoraggiamento.
Debbo la laboriosa
costruzione della mia teoria sulla logica al mio maestro Etienne Gilson, grande
filosofo francesedel quale ho
tradotto e commentato l’opera che ritengo più importante, Il realismo, metodo della filosofia. Egli mi ha fatto comprendere
che la verità di qualsiasi tesi filosofica dipende dal suo coerente collegamento
con il vero punto di partenza della riflessione filosofica, che è l’esistenza reale
degli enti. A partire da questa prima verità, la riflessione filosofica può
tentare un’ermeneutica dell’esperienza, potendo così dire qualcosa di vero
sull’essere degli enti e sul loro fondamento, che è Dio. Se invece, come ha
fattoCartesio con il Discorso sul metodo (opera che Gilson ha
studiato a fondo), si sceglie di partire dal “pensiero vuoto”, la filosofia perde
ogni giustificazione epistemica.
Questo criterio epistemologico l’ho poi
trovato anche in un filosofo italiano con il quale ho collaborato, sia a
Perugia che a Roma: Cornelio Fabro, il quale ha esaminato gli esiti
dell’opzione cartesiana(che egli chiama
“principio di immanenza”) nella storia della filosofia moderna (Spinoza, Hume,
Kant, Hegel, Schelling, Husserl), rilevando come il rifiuto del realismo abbia reso la speculazione filosofica suggestiva
ma priva di fondamento, sfociando inevitabilmente nell’ateismo e nel
nichilismo.
Sulla scorta di questi due miei maestri io ho però imparato a non
fare di tutte le erbe un fascio: non tutta la filosofia moderna è
metodologicamente idealistica, perché molti importanti autori (che io definisco
i “filosofi del senso comune) hanno scelto l’opzione realistica: basti pensare
a Pascal, a Reid, a Jacobi, a Kierkegaard, a Rosmini, a Bergson.
Considero di particolare importanza
e urgenza, per i tempi in cui viviamo, aiutare tutti coloro che hanno veramente
a cuore la verità dell’esistenza a usare rettamente la ragione, a possedere gli
strumenti logici dell’autentico “discernimento”. I miei lavori scientifici possono
e debbono servire a tutti per saper discernere le verità assolute (metafisiche e morali) da quelle relative (fisiche, biologiche, psicologiche, sociologiche, economiche,
politiche).
Mentre le verità assolute sono sempre presenti alla coscienza di
tutti e forniscono l’unica base possibile per un dialogo costruttivo tra le
culture, le verità relative dipendono dalle contingenze storiche e da interessi
di parte, sicché non possono mai essere universalmente condivise. Quando si
pretende di imporre come assolute le verità relative (come fanno i fautori del
pensiero unico, al servizio del “nuovo ordine mondiale”), non c’è più vero
dialogo tra le diverse istanze democratiche ma solo propaganda e colonialismo
culturale. E’ quello che fanno tutte le ideologie, sia di stampo conservatore
che di stampo progressista.In rapporto
alla fede cristiana, io combatto tutti i fondamentalismi, che sono sempre un
uso pragmatico della verità rivelata, pretendendo di poter dedurre da verità religiose
assolute (quelle che sono garantite dalla parola di Dio) certe conseguenze
politiche che in realtà rispondono solo alle proprie opzioni ideologiche. Come
filosofo e come credente mi ribello a questo vizio di imporre le proprie idee
in nome di Dio.
Il peccato contro lo Spirito Santo non si commette solo quando
si nega una verità esplicitamente rivelata da Dio, ma anche quando si
etichettano come “Vangelo” le proprie ipotesi umane, la propria visione delle
questioni socio-politiche.Si può dire:
“Dio l’ha detto” o “Dio lo vuole” solo quando ciò è testualmente attestato da
Dio stesso. Insomma, io combatto il fanatismo religioso (assolutizzazione delle
ideologie umane e relativizzazione della rivelazione divina) per gli stessi
motivi logici per cui combatto il fanatismo scientismo (teorie scientifiche
delle evidenze logiche e metafisiche) e la retorica del nichilismo o “pensiero
debole” di Gianni Vattimo.
I principi logici che io
intendo riproporre per evitare oggi lo scientismo, il fanatismo ideologico, il
fondamentalismo religioso si riconducono tutti a un principio fondamentale: il
rispetto di quello che i filosofi analitici americani hanno chiamato la
“giustificazione epistemica” (epistemic
justification). Ciò significa, in pratica, che ogni discorso che pretenda
di essere recepito in pubblico come verità deve esibire le proprie credenziali
logiche e non affidarsi soltanto agli strumenti della persuasione retorica o
allo sbandieramento della propria o altrui autorità in materia. Per parlare onestamente di qualsiasi argomento, sia
scientifico che politico o religioso, si deve fornire una adeguata di ogni
singola affermazione che si fa, riportandole a ciò che tutti necessariamente
ammettono come vero. Se chi parla o scrive non è in grado di fornire tale
giustificazione (perché nemmeno lui è assolutamente certo di quello che vuole far
credere agli altri), è meglio che stia zitto, o almeno confessi che ancora non
ha le idee chiare e ci sta pensando. Purtroppo, vediamo nei libri che più si
vendono e nei talk show che quasi tutti assumono, per convincere della
giustezza delle proprie tesi, un atteggiamento arrogante, fingendo di essere
arrivati a certe conclusioni dopo un lungo itinerario razionale, quando invece
sono tesi infondate, indimostrabili, che servono solo a consolidare la propria
posizione di potere all’interno di quella “dittatura del relativismo” che il
cardinale Ratzinger (poi papa Benedetto XVI) denunciava alla vigilia della sua
elezione al soglio pontificio.
Per restare ai problemi
dottrinali della Chiesa, io ho documentato criticamente come i principali
esponenti della teologia contemporanea siano affetti da relativismo dogmatico
ed etico e da un pericoloso antropocentrismo. Io sostengo questa mia tesi, non
per partito preso o per invidia del successo di altri, ma proprio perché questi
“altri” hanno costruito e imposto nella Chiesa un’ideologia fondata su un
intrico di sofismi e sulla pretesa autorità teologica di pensatori luterani
dell’Ottocento (Hegel, Schelling) o del Novecento (Tillich, Bultmann, Barth). I
miei studi di storia della filosofia e della teologia mi hanno consentito di
vedere (e poi anche dimostrare) che “il re è nudo”. In questo caso il “re” è il
teologo gesuita Karl Rahner, il cui antropocentrismo è non solo “pericoloso”
come ha detto lei ma è deleterio per la fede cattolica. Rahner tenta di giustificare
(retoricamente, sofisticamente) la “svolta antropologica della teologia”
fingendo prima di rifarsi a san Tommaso d’Aquino (interpretato però con gli
schemi del trascendentalismo di Kant) e poi rifacendosi pedissequamente a Hegel
e a Heidegger. Questa inadeguata giustificazione della sua nuova teologia,
basata solo sull’autorità di pensatori che nella Chiesa cattolica non
dovrebbero avere autorità dogmatica, si riflette poi sull’ingiustificata
autorità dottrinale che Rahner ha esercitato e continua a esercitare sui
teologi cattolici (a cominciare da Hans Küng) e anche sui vescovi di tutto il mondo.